iPad, Twitter e calcio: una questione di potere

Qualche tempo fa sono stato contattato da Antonio Carotenuto, giornalista di Repubblica, che mi chiede un’intervista sulla questione calcio e tecnologia (iPad in panchina, divieto per i calciatori di Twitter e Facebook e così via).

Nonostante l’intervista si dovesse svolgere telefonicamente, ho chiesto di poterla fare per email: un po’ perché all’epoca stavo negli USA e a causa del fuso orario non era facile fare una chiacchierata telefonica, un po’ perché mi sono accorto che l’argomento sarebbe stato complesso da trattare a voce, meglio la riflessione della pagina scritta (nel senso elettronico del termine).

 

Così è stato: le domande sono arrivate (molto ben documentate e con specifiche questioni da affrontare) e perciò mi sono trovato a rispondere su un tema che è molto più delicato di quanto potessi immaginare.

L’intervista è uscita  su La Repubblica di lunedì 1 novembre 2011.
E’ una versione tagliata per esigenze di spazio sul giornale: qui in basso la versione a stampa

Le tecnologie nemiche del calcio: intervista a Davide Bennato

Però mi sembrava interessante pubblicare la versione estesa in quanto mi piacerebbe avere le impressioni di chi conosce la tecnologia, o il calcio o tutte e due (io appartengo alla prima categoria).
Perciò ecco l’intervista completa e ditemi voi cosa ne pensate?

D1) Professor Bennato, il calcio vieta l’uso degli iPad in panchina e prova a controllare gli account Twitter. Da cosa nasce tanta social paura?

R1) In linea generale credo che l’ostilità all’integrazione fra mondo del calcio e tecnologia dipenda da una mancanza di chiarezza dei modi con cui potrebbero instaurarsi i rapporti con essa.
Ovvero data la poca consapevolezza sull’uso sociale di tali tecnologie da parte del management del calcio (club, federazioni, leghe) si preferisce un atteggiamento di cauta resistenza piuttosto che di accettazione esplorativa. Per esempio, i due casi citati da lei sono espressione di due diversi atteggiamenti.
Il primo (iPad in panchina) è di poca chiarezza di come potrebbero cambiare i rapporti di potere tra allenatore e presidente/direttore sportivo.
Il secondo (controllo Twitter) è di poca chiarezza di come potrebbero cambiare i rapporti fra utenti Twitter del calcio (arbitri, calciatori) e management se ci fosse maggiore trasparenza e immediatezza nella comunicazione.
L’ingresso della tecnologia in un contesto socialmente organizzato (in questo caso il calcio professionista) non è un problema tecnologico, ma un problema politico (nel senso di gestione del potere) .

D2) Scherma, pugilato, rugby, basket e tennis offrono ai loro arbitri il sostegno di strumenti tecnologici. Il calcio lo ritiene inaccettabile. Lei come lo spiega?

R2) L’arbitro tecnologizzato è una figura che costringerebbe a ripensare i ruoli fra soggetti coinvolti nel calcio.
L’arbitro è un garante del corretto procedere della partita, ma la sua autorità è questionabile perché – essendo un essere umano – è fallibile.
Nel momento in cui appare sulla scena il “cyber-arbitro” le cui scelte potrebbero essere più corrette grazie all’aiuto della tecnologia, sarebbe più difficile per un tifoso ribellarsi per un rigore che non c’era, per un allenatore criticare le punizioni fischiate, per un presidente attaccare per un fuori gioco e così via dicendo.
Ovviamente da un punto di vista sociologico, maggiore tecnologia non implica automaticamente maggiore correttezza decisionale, ma questo è un altro discorso.

D3) Perché il calcio si sottrae a quella che in qualche suo scritto lei chiama strategia dialogica?

R3) Per strategia dialogica, intendo che i processi relazionali che avvengono nei social media, somigliano molto alla conversazione fra due soggetti in cui uno parla e l’altro ascolta in un costante negoziazione dei propri punti di vista. Ascoltare è il punto chiave della strategia dialogica.
Il calcio – da un punto di vista simbolico – non può permettersi il lusso di ascoltare/negoziare, perché il calcio è appartenenza ideologica. Essere tifosi vuol dire aderire acriticamente ad un valore, quello della correttezza e della giustezza della propria squadra, e nulla può mettere in dubbio questo dogma.
Emblematico da questo punto di vista la discussione sui rigori nelle partite di calcio: la squadra che lo ottiene riconosce la presenza del fallo in area, la squadra che lo subisce attribuisce la questione ad un arbitraggio negativo. E’ impossibile che le due posizioni raggiungano un accordo.

D4) Il calcio riuscirà a sottrarsi ancora a lungo all’abbraccio della tecnologia?

R4) Non è una domanda di facile risposta, posso azzardarne una utilizzando il buonsenso.
L’unico modo con cui la tecnologia potrà entrare nel calcio avverrà solo se contemporaneamente tutti i soggetti coinvolti adotteranno una dimensione tecnologica, in questo modo i rapporti di potere resteranno invariati e si potrà beneficiare di questo cambiamento.
Mi spiego.
Tifosi, calciatori, arbitri, dirigenza delle squadre si trovano in posizioni diverse e con potere diverso gli uni verso gli altri: l’arbitro ha potere su calciatori e tifosi, gli allenatori sui calciatori e sugli arbitri, la dirigenza sugli allenatori e sugli arbitri. Se uno di questi soggetti diventa tecnologizzato, l’equilibrio di ruoli si spezza portando non pochi problemi.
Ma se tutti contemporaneamente adottano una tecnologia (l’allenatore con l’iPad, i calciatori con Twitter e Facebook, la dirigenza con analisi tecnologiche delle performance della squadra) i rapporti restano invariati.
Bisogna immaginare che questi protagonisti del calcio siano su diversi gradini di una scala: se uno ha la tecnologia sale di un gradino e raggiunge un altro, ma se tutti hanno la tecnologia tutti salgono di un gradino e le posizioni restano invariate.
E’ la classica situazione descritta dal Gattopardo: tutto deve cambiare perché tutto resti com’è.

D5) In passato s’è registrato anche il fallimento di alcune iniziative legate all’analisi delle partite attraverso i numeri, mentre in sport come il basket (o come il baseball negli Usa) è un fattore irrinunciabile. Perché tanta distanza dagli altri sport?

R5) Secondo me è una questione di maturità fortemente legata al mercato.
Se esistessero delle metriche pubbliche per valutare le performance individuali e di squadra, sarebbe molto più facile “prezzare” i fuoriclasse non sulla base dell’intuito, ma sulla base dei dati. In questo modo le società saprebbero con molta certezza cosa comprano, i procuratori dovrebbero avere consapevolezza di cosa vendono e i calciatori dovrebbero sapere perfettamente quanto valgono.
Non è un caso che baseball e basket siano gli sport che hanno sviluppato statistiche specializzate: sono sport “americani”, ovvero in cui il mercato principale (quello ricco, per intenderci) è statunitense e secondo l’ideologia individualistica statunitense è possibile isolare in contributo di un giocatore nella squadra.
Inoltre è una questione di trasparenza a cui il mondo del calcio non sono sicuro che sia pronto.
Specificamente al caso italiano, l’analisi statistica di alcuni campionati, avrebbe rivelato delle strane correlazioni fra performance delle squadre, arbitraggi e andamento delle partite che sarebbero suonate come campanello d’allarme.

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